lunedì 27 gennaio 2025

I dazi di Trump (Atto Secondo)

Continuiamo il discorso che abbiamo iniziato qui passando ora al secondo punto di vista, quello americano. Quello del deficit commerciale continuo e persistente di cui vi mostro subito una diapositiva:


Grafico 1


Dal 1999 (almeno) gli Stati Uniti sono in costante deficit commerciale, cioè sistematicamente importano molto più di quanto esportano. E questo costituisce senza dubbio un tema di politica economica. Quello che tuttavia consegue logicamente dalla diapositiva 1 è che tutti i provvedimenti legati ai dazi sulle importazioni che sono stati deliberati dai governi americani negli ultimi 26 anni (ne abbiamo citati alcuni qui) non hanno sortito alcun reale effetto di miglioramento del saldo delle partite correnti, e quindi non sono stati in grado di correggere lo squilibrio che gli Stati Uniti registrano verso l'estero. Il fatto che un provvedimento non sia stato efficace e non abbia nei fatti funzionato potrebbe essere già un buon motivo per evitare di reintrodurlo, ma si sa, Donald ha la testa dura (e la chioma bionda, che per taluni non è sintomo di particolare intelligenza, ma so' stereotipi...).

Che i dazi non funzionano e non funzioneranno per correggere lo squilibrio verso l'estero ormai ventennale degli Stati Uniti non ve lo dico io, ve lo dice Blanchard qui e Krugman qui. E tra l'altro sul fatto che non possano funzionare c'è particolare accordo tra gli economisti (il che è un qualcosa di estremamente raro) siano essi ortodossi siano essi eterodossi. 

Quello che voglio aggiungere io è legato ad un fenomeno che ormai si sta verificando in maniera decisa da anni: il continuo apprezzamento del dollaro verso le altre divise del mondo. Per mostrarvi questo utilizzo il tasso di cambio effettivo reale (che viene calcolato come una media ponderata dei tassi di cambio bilaterali, aggiustati per i prezzi al consumo) che è sostanzialmente una misura del valore di una valuta (in questo caso il dollaro) rispetto ad un paniere di altre valute (le principali altre valute del mondo).

(in questo caso quando il cambio si muove verso l'alto si registra un apprezzamento del dollaro rispetto alle altre valute del mondo)



Grafico 2 


Come potete vedere dal 2012 il dollaro si apprezza costantemente. Questo significa, come la teoria macroeconomica insegna, che le merci statunitensi saranno sempre meno competitive sul mercato globale (dunque le esportazioni statunitensi tenderanno a ridursi) e simmetricamente i cittadini americani troveranno sempre più conveniente l'importazione di merci estere (dunque le importazioni tenderanno ad aumentare), implicando un peggioramento ulteriore del deficit commerciale. 

In questo caso non c'è un ca.... (ehm) dazio che tenga! 

Date queste condizioni di cambio che abbiamo illustrato nel grafico 2 non vi è alcuna possibilità di miglioramento significativo del saldo delle partite correnti e nessuna politica daziaria potrà portare a questo risultato. L'unica via realmente percorribile, se si vuole davvero correggere lo squilibrio che abbiamo registrato al grafico 1, è fermare l'apprezzamento del dollaro ed indurne una svalutazione.

Ma in realtà, come le ultime ore ci stanno mostrando, Trump non ha alcun interesse a correggere lo squilibrio commerciale verso l’estero degli Stati Uniti e soprattutto non considera i dazi come strumenti di politica economica da utilizzare in questo senso. Per il biondo i dazi sono esclusivamente uno strumento punitivo e coercitivo come dimostra il caso Colombia. 




In questo caso ogni analisi di natura economica è totalmente superflua....



(ci risentiamo....magari ancora sui dazi....)

sabato 25 gennaio 2025

Necrologio del giornalismo italiano sull'OMS

Arrivo forse un po' in ritardo. Ma la (grande) Lega ha proposto un paio di giorni fa, in un emendamento al ddl milleproroghe (che verrà dichiarato inammissibile), l'uscita dell'Italia dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. L'idea è chiaramente una trovata populistica che la (grande) Lega utilizza per cercare di tamponare la costante ed ormai inevitabile perdita di consensi cercando di sfruttare il gradimento popolare per Donald Trump, il biondo amante dei dazi (che abbiamo approfondito qui).

Risulta difficile fare peggio degli amici della Lega, i quali propongono qualcosa di stupido (un organismo di coordinamento sanitario mondiale è necessario nel 2025 globalizzato, se non capite perchè passate oltre questo 'blogghe') con modalità stupide (cioè con un emendamento ad un ddl consapevoli del fatto che verrà dichiarato inammissibile). Insomma, i leghisti sanno che i loro elettori non spiccano per particolari capacità cognitive, e dunque sanno benissimo di poterne alimentare la pancia ed il credo politico con mere trovate propagandistiche senza alcuna reale conseguenza.

(Vi do uno spoiler: alla fine non usciremo dall'OMS!)

Tuttavia qualcuno che fa peggio io l'ho trovato e sono gli amici della redazione sanità del quotidiano LaRepubblica, una volta giornale degno, oggi carta utile per accendere il camino (per chi ce l'ha), l'articolo incriminato lo potete leggere qui:




L'articolo si pone l'obiettivo di descrivere le conseguenze dell'uscita degli Stati Uniti dall'OMS sulla saluta globale. ''Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene''. L'approccio dell'articolo sembra essere quello corretto (da tutti i punti di vista eccetto quello del leghista, questo è chiaro), e cioè sottolineare come a pagare il prezzo più alto di un taglio ai fondi dell'OMS dovuto all'uscita di uno dei suoi più importanti finanziatori lo pagheranno le popolazioni dei paesi più poveri. Ma entriamo nel vivo di queste 'conseguenze' dell'uscita degli Stati Uniti:





''Ciò comporterebbe ad esempio, il fatto di rendere tutte le riunioni virtuali per impostazione predefinita'' (Miii le riunioni virtuali! Che sacrificio!), 

''Comporterebbe anche la sospensione della ristrutturazione degli uffici!!!''

''Oppure di limitare la sostituzione delle apparecchiature high tech'' (?!)

Ma come, non dovevamo parlare delle conseguenze dell'uscita degli USA dall'OMS sulla salute globale?

Gli incredibili ed integerrimi giornalisti di repubblica riescono a dare credito alla narrativa leghista per la quale, sostanzialmente, l'OMS sia uno ''stipendificio'' ove si preoccupano esclusivamente degli uffici ''faraonici'' da mantenere (le ristrutturazioni!) e dei viaggi in giro per il mondo pagati dall'organizzazione (e quindi guai alle riunioni virtuali!). 

Solo dopo aver specificato queste gravi ed importanti conseguenze operative dell'uscita degli USA dall'OMS la redazione decide (finalmente!) di approfondire le ricadute sulla salute globale, citando il parere dell'autorevole Professor Rezza. Ma l'autogol mi pare evidente...


Il decadimento di questo paese passa anche dall'inconsistenza della classe giornalistica, del resto siamo passati da Enzo Biagi e Indro Montanelli a Mario Giordano, Paolo Del Debbio e alla 'redazione sanità' di Repubblica.

venerdì 24 gennaio 2025

I dazi di Trump (Atto Primo)

Donald Trump si è insediato lunedì come 47esimo Presidente degli Stati Uniti. E da qualche giorno su tutti i giornali si parla di possibili dazi da parte della nuova amministrazione americana (anche) su beni italiani. La questione dazi va a mio avviso analizzata da due punti di vista:

1) Dal punto di vista italiano, e quindi cercare di capire quali rischi effettivamente corrano le nostre imprese in termini di export verso gli Stati Uniti. In questo senso può esserci utile analizzare l'andamento dei flussi commerciali dal nostro paese verso gli Stati Uniti dal 2017 al 2021 (escludendo il periodo pandemico), durante gli anni della prima amministrazione Trump che già adottò politiche protezioniste.

2) Dal punto di vista americano, cioè dal punto di vista di un paese che ha ormai da anni un costante deficit di bilancia commerciale (dunque importa sistematicamente più di quanto esporta). Una delle motivazioni a supporto delle politiche daziarie di Trump è esattamente quella di riequilibrare lo squilibrio commerciale che gli States registrano da anni verso l'estero. Ma siamo sicuri che le politiche daziarie possano correggere questo squilibrio? Oppure finiranno per amplificarlo?

Oggi mi limito ad approfondire il punto di vista italiano. Come riferimento è opportuno prendere la prima amministrazione Trump, per comprendere l'impatto che i dazi della prima amministrazione ebbero sull'export italiano. 

Il primo dazio straordinario che l'amministrazione Trump impose e che colpì anche il nostro paese risale a marzo del 2018 e riguarda le importazioni di alluminio e acciaio. Si trattava di un dazio del 25% sull'acciaio e del 10% sull'alluminio. Nell'ottobre 2019, nell'ambito della disputa Airbus-Boeing presso il WTO, l'amministrazione Trump decise di imporre dazi fino al 25% su una lista di beni proveniente dall'Unione Europea (tra cui anche l'Italia) colpendo in particolare i beni agroalimentari (in particolari formaggi, salumi e liquori), vennero invece risparmiati il vino italiano e l'olio d'oliva. Nel luglio del 2020 questi dazi vennero ulteriormente confermati. Verranno invece abrogati solo nel marzo del 2021 dall'appena insediatasi amministrazione Biden.


Chi vi dice che le imprese italiane non hanno nulla da temere da nuovi eventuali dazi perchè ''durante la prima amministrazione Trump l'export italiano verso gli USA non si è ridotto'' dice una grande bugia. Chi vi dice questo vi mostra dati e grafici utilizzando l'export di beni e servizi italiani verso gli Stati Uniti commettendo un significativo errore metodologico, questo perchè i dazi di Trump, come abbiamo visto sopra, riguardavano esclusivamente beni e non coinvolgevano i servizi. Quindi ciò che è corretto fare per valutare l'impatto del protezionismo dell'amministrazione Trump sull'export italiano è scorporare l'export di beni da quello dei servizi. Prendendo dati storici da Eurostat dell'export italiano di beni dal 2010 al 2024 (ho preso dati trimestrali) verso gli Stati Uniti otteniamo quando si vede nel grafico 1:


Grafico 1




In rosso vi ho evidenziato il periodo dell'amministrazione Trump (il suo mandato termina il 1 Gennaio del 2021 ma il 2020 non lo consideriamo dati gli eventi pandemici che, se coinvolti, renderebbero la nostra analisi fuorviante). Ora, come potete vedere già dai volumi (sulla scala di sinistra in milioni di euro) rispetto al periodo precedente si registra un appiattimento del livello di export di beni durante l'amministrazione Trump. Non ci credete? Vi aiuto con il grafico 2:



Grafico 2



Dall'inizio del mandato di Trump fino al primo trimestre del 2022 l'export italiano di beni verso gli Stati Uniti è stato sotto la tendenza storica. Questo sicuramente causa covid (che dal primo trimestre del 2020 ha bloccato i flussi commerciali mondiali), ma certamente con un ruolo giocato dall'amministrazione Trump, soprattutto da quando ad essere colpiti dai dazi sono stati anche i beni agroalimentari italiani che costituiscono una parte importante del nostro export negli Stati Uniti (nel 2018 secondo InfoMercatiEsteri l'agroalimentare pesava quasi il 10% sull'export totale italiano - includendo anche i servizi- verso gli Stati Uniti). Ulteriore conferma del rallentamento dei flussi commerciali italiani di beni verso gli Stati Uniti la otteniamo calcolando il tasso di variazione trimestre su trimestre dei dati utilizzati per il grafico 1 e 2. Otteniamo quanto segue (nel riquadro è ancora rappresentata l'amministrazione Trump pre-covid cioè fino al primo trimestre del 2020):



Grafico 3



Se poi procediamo col calcolare e confrontare il tasso di variazione medio delle esportazioni di beni italiani negli Stati Uniti nei 13 trimestri prima dell'incarico a Trump, nei primi 13 trimestri dell'amministrazione Trump (che terminano appunto con l'inizio della pandemia nel primo trimestre del 2020 che escludiamo per evitare di falsare l'analisi) e nei 13 trimestri successivi alla fine del mandato di Trump otteniamo i seguenti risultati:



Tabella 1: Q1 2017 - Q1 2021 fa riferimento all'intera amminist. Trump, includendo anche il Covid



L'export di beni italiani cresceva del 5% nel periodo Pre-Trump e del 4% nel periodo post-Trump, solo dell'1% invece durante i 13 trimestri dell'amministrazione del tycoon prima dello shock covid che quindi non influenza i dati. Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova....


I dati che vi ho mostrato sopra sono dati aggregati e cioè prendono in considerazione l'insieme di tutti i beni esportati negli Stati Uniti. Nel caso specifico, quei dati che vi ho riportato includono ad esempio il parmigiano reggiano (oggetto di dazi) ma anche il vino (che non fu oggetto di dazi) ne consegue che utilizzando microdati su base settoriale (ci riuscirò quando il progetto di Kalistat andrà in porto) si riuscirebbe a dare una dimensione molto più concreta e realistica del fenomeno che qui risulta evidentemente meno precisa di quella che dovrebbe e potrebbe essere.

(NB: rimane comunque molto più precisa di quanto possiate leggere sui quotidiani italiani o su qualche altro 'blogghe')

E' evidente che ci siano state imprese esportatrici danneggiate dai dazi trumpiani, e questo lo possiamo affermare con certezza data la flessione ed il rallentamento che in aggregato l'export di beni registra e che abbiamo evidenziato nel grafico 2 e nella Tabella 1 durante il periodo della prima amministrazione Trump. Del resto un'impresa esportatrice che abbia ottenuto benefici da un dazio sui propri prodotti non penso sia mai esistita! E' curioso che ci sia una parte politica che ha costruito il proprio successo elettorale anche sul difendere a spada tratta gli interessi della piccola e media impresa agroalimentare italiana che ora predica calma su una possibile reintroduzione di dazi da parte della nuova amministrazione Trump. Non c'è alcuna calma da predicare. Così come un cittadino respira più leggero senza una tassa, respira più leggero anche un imprenditore esportatore (e con lui i suoi lavoratori) quando il suo prodotto è liberato da un dazio! 

Amici della Coldiretti non avete nulla da guadagnare ma tutto da perdere da qualsiasi dazio posto oltreoceneo....ma del resto questa è la contraddizione dei sovranismi, ogni sovranista difende i propri interessi i quali sono diametralmente contrapposti a quelli di qualche altro sovranista dall'altra parte del mondo!


martedì 21 gennaio 2025

Quello che nessuno dice sull'economia Argentina ed il Piano Milei

Iniziamo da ciò che già sapete e quello di cui tutti vi parlano: Javier Milei si è ufficialmente insediato alla Casa Rosada come Presidente dell'Argentina il 10 dicembre 2023. In quei giorni c'è una principale e significativa emergenza nel paese che è l'inflazione. Sulla lotta a quest'ultima Milei ha sostanzialmente costruito il suo (inaspettato per molti) successo elettorale. L'inflazione è quindi la problematica a cui Milei mette istantaneamente mano appena insediatosi e di seguito trovate una diapositiva di quanto poteva vedere Milei la mattina del 10 dicembre consultando i dati di INDEC (l'ISTAT argentina):


Grafico 1: IPC variazioni mensili

I dati registravano una variazione del 25% a dicembre 2023 dell'Indice dei prezzi al consumo. Questo significa che, in media, i prezzi dei beni e servizi monitorati dall'indice sono aumentati del 25% rispetto a Novembre 2023. Ciò che nel mese di Novembre costava 100, a Dicembre costava 125. Ora, non ho intenzione di eccedere nell'approfondimento del tema inflazione, semplicemente perchè è stato un tema ampiamente trattato da autorevoli economisti (ad esempio qui) anche sulla stampa mainstream. Mi interessa quindi semplicemente far emergere il dato che dal grafico 1, Milei ha condotto la lotta all'inflazione seguendo due strategie fondamentali: un forte taglio della spesa pubblica (shock negativo di domanda, disinflattivo per definizione) e un forte piano di liberalizzazioni (uno shock positivo di offerta, anch'esso disinflattivo per definizione). Grazie a questo approccio radicale Milei è riuscito a riportare l'inflazione al livello pre-crisi. Vi propongo la situazione dell'Indice dei prezzi al consumo pre e post Milei nella diapositiva 2: 


Grafico 2: IPC dopo la cura Milei 


L'effetto del Piano Milei è certamente disinflattivo come mostrano i dati, quello che resta da definire è l'effetto sulla produzione (cioè sul Pil). L'effetto finale sulla produzione dipenderà dall'entità dei due shock indotti, e cioè da quale dei due (quello negativo di domanda dovuto al taglio della spesa pubblica o quello positivo di offerta dovuto alle forti liberalizzazioni) prevarrà sull'altro.

Io ho intenzione di approfondire esattamente questo aspetto, e più nello specifico fare quello che nessuno ha ancora fatto (almeno nel dibattito pubblico italiano) e cioè mostrarvi l'andamento storico del pil reale - dunque a prezzi costanti (in questo caso del 2004) e depurato dall'inflazione - argentino negli ultimi 22 anni. Mettere le variabili in prospettiva storica è fondamentale per cercare di comprendere la loro vera dinamica ed è a mio avviso cruciale per valutare l'impatto delle politiche economiche. Come riferimento in questa seconda parte utilizzo il database del Fondo Monetario Internazionale (WEO Database). Vi propongo la seguente diapositiva che ci restituisce uno scenario desolante sulla crescita reale argentina degli ultimi 20 anni e che nessuno ha mai sottolineato con l'enfasi necessaria soprattutto sui quotidiani italiani:


Grafico 3: 22 anni di crescita reale argentina, Pil reale e tendenza


Il livello del Pil reale argentino risulta, nel 2024, inferiore al livello del 2011 (710,782 miliardi di pesos contro i 689,593 miliardi del 2024). Questo significa che in tredici anni l'Argentina non solo non è cresciuta, ma ha anche bruciato ricchezza. Un'enormità della quale non mi pare si sia parlato a sufficienza. Lo scenario diventa ulteriormente degradante se lo mettiamo in prospettiva (a scopo puramente descrittivo) con la precedente tendenza di crescita reale ultra-decennale (1998-2012) che vedete nel grafico 4 in giallo. Se ipotizzassimo un andamento del Pil reale lungo quel trend storico, all'appello nel 2024 mancherebbero 400 miliardi di pesos. Questo inchioda ulteriormente i governi argentini precedenti, ed in particolare le politiche peroniste e kirchneriste che hanno letteralmente affossato la crescita economica reale argentina. In questo contesto arrivano però segnali positivi e di fiducia da parte del Fondo Monetario Internazionale nei confronti del governo Milei, chiamato dai suoi elettori non solo a sconfiggere l'inflazione (che come abbiamo visto dal grafico 2 è ormai tornato ai valori pre-crisi) ma anche a rilanciare la crescita del paese. Il Fmi nel recente World Economic Outlook ha pubblicato le sue stime di crescita reale per l'Argentina per i prossimi anni. Questo ci permette di valutare ed intuire quale potrà essere l'effetto sulla produzione del piano Milei. Inserendo le previsioni del Fondo nel grafico 4 possiamo ricavare ulteriori interessanti considerazioni:


Grafico 4: previsioni del Fmi sul Pil reale argentino


Secondo le stime del Fmi dal 2025 l'Argentina supererebbe il livello di Pil reale del 2011 (724,038 miliardi di pesos contro i 710 del 2011) sotto il quale era sostanzialmente rimasta per 13 anni, intraprendendo un percorso di crescita costante. Si rimarrebbe comunque ampiamente sotto il trend ultra-decennale che è riportato sul grafico in giallo, ma si verificherebbe (qualora le previsioni del Fmi si rivelassero corrette) un cambio di rotta significativo rispetto agli ultimi 13 anni. Ora, le previsioni del Fmi sono, appunto, previsioni che vanno quindi trattate e valutate con estrema cautela. Tuttavia la direzione che il Fmi indica è chiara ed è positiva sia per la valutazione del governo Milei sui risultati già ottenuti nella lotta all'inflazione, sia sulle prospettive di crescita future.

Perchè penso che il Piano Milei possa avere effettivamente successo anche sul lato della produzione oltre a quello legato alla stabilizzazione dei prezzi? C'è almeno un altro indicatore che a mio avviso merita di essere osservato e che è fondamentale per una crescita economica sostenuta e sostenibile nel tempo di un paese come l'Argentina, e parlo dell'indebitamento pubblico. Guardando l'evoluzione del Debito pubblico in % del Pil osserviamo quando segue:


Grafico 5: Debito Pubblico in % del Pil e previsioni


Anche qui i dati risultano incoraggianti. La previsione di riduzione del debito in % del Pil è sviluppata partendo da due assunti che derivano dall'impostazione delle politiche economiche di Milei: forte disciplina fiscale (con azzeramento dei deficit cronicamente registrati negli ultimi anni dai governi argentini) e rilancio della crescita economica del paese (rilanciando l'offerta con forte deregolamentazione e importanti liberalizzazioni). Questi due fattori combinati contribuiscono a ridurre significativamente il debito pubblico in % del Pil. Il ritorno a livelli sostenibili del debito pubblico è una condizione fondamentale per una crescita solida e di lungo periodo che l'Argentina meriterebbe dopo anni di povertà. In questo senso, e per tutto quanto esposto sopra, possiamo concludere che il Piano Milei stia funzionando (vedi la stabilizzazione dei prezzi) e - date le previsioni delle più auterovoli organizzazioni economiche internazionali - con ogni probabilità continuerà a funzionare, anche sulla crescita. 


(In post successivi approfondirò dati ulteriori sull'andamento del cambio ARS/USD (peso argentino/dollaro) e sull'evoluzione del saldo della bilancia dei pagamenti durante la cura Milei. Bisognerà approfondire poi - e ci sarà tempo - anche i 'costi sociali' in termini di occupazione e povertà)

sabato 18 gennaio 2025

Tassi di cambio e volatilità: euro e lira a confronto

Ultimamente, come molti altri miei coetanei, sono totalmente immerso in quella che ogni universitario potrebbe definire la bolla della sessione. Una spazio temporale all'interno del quale la vita diventa (almeno per me) totalmente standardizzata. Le giornate scorrono pressoché identiche, in un limbo tra studio (talvolta di cose molto interessanti, talvolta meno) e istanti di distrazione. In uno di questi istanti di distrazione mi sono imbattuto in questo:


Grafico 1



Ove, come si può dedurre dal titolo, è illustrato lo storico del tasso di cambio nominale tra valuta italiana, sia essa lira fino al 1999 sia essa euro dal '99 ad oggi, e il dollaro americano. La prima constatazione abbastanza importante da fare è sottolineare la generale tendenza ad apprezzarsi del dollaro, che nonostante alcune fasi specifiche di deprezzamento (tra '84 e '88 o tra 2002 e 2009) si è sostanzialmente sempre apprezzato nei confronti della valuta nazionale italiana.

(Nota bene: nel grafico sopra è rappresentata la quantità di valuta nazionale necessaria per acquistare un dollaro, ne consegue che se il cambio sale, cioè serve più valuta nazionale per comprare un dollaro, la valuta nazionale si deprezza!)

 Un noto economista che è solito scrivere su un noto blog, e che è solito attribuire all'Euro tutto il male che c'è in questo mondo, sarebbe portato a pensare (ed effettivamente pare lo abbia pensato dal momento che lo ha scritto!) che in realtà, guardando l'andamento del tasso di cambio nominale di cui sopra, l'euro non abbia portato tutta questa stabilità che si è soliti attribuirgli. Quello che bisogna fare, per dimostrare se questo economista dica effettivamente il vero, è confrontare la volatilità del tasso di cambio nei due periodi (nel periodo in cui avevamo lira e nel periodo attuale, quello con l'euro). Quello che decido di fare è quindi di prendere 25 anni del cambio nominale ITA/USA con la lira (nello specifico prenderò dal punto rosso al punto giallo del grafico 1) e confrontare la sua volatilità con il periodo euro (anche qui 25 anni, dal '99 al 2024, nel grafico 1 dal punto giallo a quello verde). Primo problema: come calcoliamo la volatilità del tasso di cambio? Calcoliamo la variazione logaritmica periodo su periodo (in questo caso mese su mese essendo i dati mensili), in modo da avere un confronto omogeneo tra periodo lira e periodo euro, successivamente dalle variazioni logaritmiche deriviamo la deviazione standard, una misura chiara e indiscutibile di volatilità del tasso di cambio. E' quello che dunque mi accingo a fare, iniziando dal Periodo Lira 1973-1998:



Grafico 2



In basso a destra trovate la deviazione standard (pari a 0,0259) che utilizziamo appunto come indicatore della volatilità del cambio ITA/USA. Svolgendo lo stesso procedimento per il Periodo Euro 1999-2024 ottengo quanto segue:



Grafico 3



Mantengo i valori della scala di sinistra identici nei due grafici (con 0,12 estremo superiore e -0,08 come estremo inferiore). La scala permette infatti già di visualizzare graficamente la maggiore volatilità del tasso di cambio nel Periodo lira rispetto al Periodo Euro. La maggior volatilità del cambio viene ulteriormente confermata dal calcolo della deviazione standard delle variazioni logaritmiche, che nel caso del Periodo Euro risulta essere inferiore rispetto al Periodo Lira (0,0217 contro 0,0259). Per dare un'ulteriore visione di insieme posso unire le due serie in un unico grafico, con le rispettive deviazioni standard: 


Grafico 4



Di conseguenza la minor volatilità (e dunque la maggior stabilità) del cambio nel Periodo Euro appare (soprattutto dal calcolo delle Dev. Standard) chiara. Per provare però a visualizzare meglio graficamente la minor volatilità del cambio (se ancora non bastasse) nel periodo euro possiamo restringere il campione temporale utilizzato. Possiamo quindi confrontare gli ultimi 10 anni di lira con gli ultimi 10 anni di euro (confrontiamo quindi la volatilità del cambio tra 1988-1998 e 2014-2024):


Grafico 5


In questo caso, utilizzando un campione temporale inferiore, si riesce ad apprezzare meglio anche graficamente la maggiore volatilità del cambio ITA/USA nel periodo Lira. In questo caso le deviazioni standard divergono ulteriormente (0,02704 nel periodo Lira contro 0,01702 del periodo euro). 

Ora, io non nutro particolare simpatia per il progetto di costruzione europea, ma la maggiore stabilità che ci ha garantito l'euro è un fatto evidente che emerge, tra le altre cose, anche guardando alla volatilità del cambio ITA/USA come abbiamo fatto sopra. Ci sono tanti ulteriori aspetti sui quali si può discutere criticamente della costruzione europea, a partire dal tema dell'eccessiva regolamentazione e dal Patto di Stabilità, ma sulla questione della (guadagnata) stabilità valutaria le chiacchiere stanno a zero.


I numeri della Striscia di Gaza dal 7 ottobre ad oggi

I dati relativi alle vittime e ai feriti nella Striscia di Gaza sono forniti su questo database dal Ministero della Salute di Gaza. Il data...